Cinema / la solitudine di Antonio Ligabue

    Le realtà marginali della pianura padana risuonano al vento delle canne palustri e attraverso i fonemi del dialetto emiliano sono al centro del lavoro cinematografico di Giorgio Diritti, regista bolognese classe 1959 che annovera tra i suoi maestri ispiratori registi del calibro di Pupi Avati e Ermanno Olmi. Il suo ultimo film datato 2020 prende il titolo di Volevo nascondermi e narra le vicende del pittore Antonio Ligabue. La parabola del pittore è paradigmatica di una vita sfortunata: nasce in Svizzera nel 1899 figlio di una immigrata italiana che morì presumibilmente per un intossicazione alimentare insieme agli altri tre figli, Antonio venne allora dato in affidamento, ad un anno di età, ad una coppia svizzera senza figli e in realtà anche con scarse capacità economiche. La vita al giovane Antonio si prospetta subito dura, sarà costretto a cambiare molte scuole, e le difficoltà di apprendimento, complice anche un atteggiamento ribelle, condizioneranno il suo sviluppo intellettuale. All'età di 18 anni fu ricoverato per la prima volta in una clinica psichiatrica e l'anno seguente, dopo un tentativo di aggressione alla madre adottiva, fu rispedito in Italia, precisamente a Gualtieri, nella bassa reggiana, paese d'origine del padre biologico. Ricoverato anche qui presso un ospizio, inizia ad affrontare la solitudine iniziando a dipingere: se è vero che tutti in fondo abbiamo una possibilità, questa si presentò a Ligabue nei panni dello scultore Renato Marino Mazzacurati, esponente della cosiddetta scuola romana, che vedendo del talento nei tratti di quel personaggio originale lo instradò nell'uso dei colori ad olio. I giorni di Antonio Ligabue nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale trascorrevano tra la pittura, frequenti crisi nervose e ricoveri ospedalieri, fino ad essere impiegato dai soldati tedeschi, a conflitto quasi concluso, come interprete. A guerra ormai terminata alternò soggiorni tra ospizi per poveri e sfruttando l'ospitalità in case di amici. La vera scoperta del suo talento avvenne durante gli anni '50 giungendo all'apice del successo nazionale nel 1961 con una mostra di suoi dipinti presso la Galleria La Barcaccia di Roma. Nel 1862 dopo aver caldeggiato il desiderio di metter su famiglia, incoraggiato anche dal suo successo artistico, venne colpito da emiparesi al lato destro, per morire infine il 27 maggio 1965. 

    Una vita all'insegna della sofferenza affettiva, psichica e fisica che Diritti tratteggia con rispetto, rimando sempre un passo indietro, cercando di estrarre dagli episodi esteriori della vita del pittore quel malessere interiore che era nato dalla mancanza di amore, dalla mancanza di accettazione di una diversità che non riusciva ad uniformarsi. Meritevole e funzionale il flashback prolungato dell'inizio del film, determinante per afferrare l'origine dei problemi dell'uomo, vittima di traumi giovanili indimenticabili come derisioni, umiliazioni, maltrattamenti e atteggiamenti autoritari fino alla violenza. Il futuro pittore riscatta queste sopraffazioni con l'amore verso gli animali e un rapporto privilegiato con i bambini. Semplice a questo punto il collegamento tra sincerità, ingenuità e istintività del mondo animale e del mondo dell'infanzia rispetto al conformismo, alla malizia e inautenticità del mondo degli adulti. Da apprezzare anche la quasi totale assenza del sonoro, in questa prima parte, e l'uso della lingua tedesca e del dialetto reggiano durante la maggior parte della pellicola. L'ambiente in fondo è plasmato anche dalla lingua, in questo caso dal dialetto, come la sofferenza interiore è scavata nel silenzio e manifestata dalle urla del disagio. 

    Una menzione particolare va ad Elio Germano, protagonista di una mimesi fuori dall'ordinario nei panni "scomodi" del pittore, un interpretazione realistica che gli è valso l'Orso d'argento a Berlino nel 2021 e il David di Donatello, nello stesso anno, come migliore attore protagonista, premio questo esteso anche al miglior film, al miglior regista, miglior autore della fotografia, miglior scenografo, miglior acconciatore e al miglior suono.

    L'autore della fotografia, Matteo Cocco ha realizzato una magia di coerenza narrativa, attraverso una fotografia iperrealista che va a richiamare l'importanza del colore nei quadri di Ligabue, una forte esigenza di espellere quel materiale magmatico interiore sedimentatosi nel tempo, che contrasta con la luce piatta della pianura padana, con la vita tranquilla di paesi essenzialmente agricoli dove non succede nulla di particolarmente eccitante e dove tutto sembra essere al suo posto mentre il tempo scorre placido come il fiume Po scorre nella grande pianura.

    Il film non è costruito come il classico biopic dove si raccontano le vicende del personaggio, no, in questo caso Diritti va oltre e prendendo spunto dalla vita del pittore, racconta una storia di solitudine, sofferenza, una storia di umanità, di riscatto e di comunione con tutto il creato. Ci viene mostrato come forse la realtà, la normalità sono concetti astratti se dopo aver visto il film, abbiamo il coraggio di porci la scomoda domanda: chi era più connesso con la natura, con la vita, Ligabue, il pittore pazzo, oppure uno qualsiasi degli altri esseri umani presenti nel film? La risposta può sorprendere e risultare indigesta, proprio perchè gli esseri umani contemporanei hanno scisso questo flusso continuo chiamato vita nelle categorie di bello e brutto, auspicabile e disdicevole, normale e anormale, perdendo di vista il "tutto", l'ordito cosmico, come ad esempio il fatto che l'arte nasce dalla sofferenza, e la realizzazione di un dipinto, di una poesia o di una fotografia non dovrebbe essere finalizzata a mostrare quanto siamo bravi e sensibili con il fine di ottenere più like sui social media, ma a cercar di far capire che abbiamo qualcosa da dire, che i nostri "demoni" stanno urlando qualcosa, che la nostra connessione con il mondo è attiva. Ligabue ci mostra che la vita non è un gioco che ha per obiettivo la glorificazione personale, ma un percorso irto di ostacoli finalizzato a far fiorire la nostra umanità e la comunione con l'altro, dove spesso il desiderio di nascondersi rivela un sentimento più profondo e più forte della voglia di mostrarsi.



"Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all'ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore".
                                              Epitaffio sulla tomba di Ligabue  

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