Taci anima che nulla più c'è da dire.
Scorrendo le vicende dell'anno tuttora in corso, l'ultimo articolo del 2021 non può che perseguire l'intento di cercare di ricostituire un sentimento che pare perduto: l'umanità. Mentre stavo realizzando di scrivere qualcosa in merito, come spesso succede, il caso è giunto in mio soccorso con il nobile intento di fornirmi ispirazione per ciò che avrei avuto intenzione di scrivere; ecco quindi che mi imbatto nella splendida poesia di Camillo Sbarbaro "Taci anima stanca di godere", lirica contenuta nella raccolta di maggior successo del poeta ligure, Pianissimo del 1914. Avevo avuto modo di leggerla qualche anno or sono, ma quei versi seppur bellissimi, non mi avevano dato la giusta illuminazione, non erano riusciti a far scoccare in me la scintilla poetica introspettiva in essi contenuta. La "colpa" chiaramente, non andava fatta ricadere su quel capolavoro, ma bensì sul ricevente, probabilmente non ancora in sintonia con gli intenti profondi del poeta. Il materiale di raccordo tra me e la poesia in questione è probabilmente la mutata condizione umana che questa pandemia ha senza dubbio amplificato. L'essere umano sembra essersi modificato, o meglio ha completato un processo modificatorio iniziato qualche decennio fa. Il mercato, l'economia e la scienza ad essi collegata hanno allontanato l'essere umano da quella natura che da sempre lo ha connotato, disaffezionandolo all'abitudine del pensiero critico e dalla consuetudine di interpretare la società attraverso la messa in correlazione degli eventi. L'individuo del 2021 agisce, ha agito, per abitudine indotta, vive in una realtà che non è leggibile, perchè non vuole leggerla, quindi una realtà dove non sa più agire, dove la massima aspirazione è godere dell'intrattenimento, generatore di profitti, progettato da qualcun altro. Sbarbaro nella poesia, oltre a soffermarsi sull'incapacità di qualsiasi sussulto, oramai ritenuto inutile, propone la visione non edificante che vede l'uomo manipolato incapace di vedere più nulla di ciò che trascende la forma, un essere quindi dove le funzioni biologiche sono totalizzanti e hanno sopraffatto la capacità di immaginare, di progettare il futuro, oppure anche solo di riuscire ad intravedere una via di uscita da questo triste labirinto esistenziale. Anime in trappola, sedotte da un progresso che ha scalzato l'umanità, un luogo senz'altro arido, come scrive il poeta: "Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso", arido a tal punto da trasferire quella miseria negli occhi dell'individuo che non riesce neppure più a compiangersi per quella situazione nella quale è precipitato. La compressione psicologica, preponderante in questo periodo, ha azzerato la capacità di astrazione, concentrando l'attenzione di interi popoli sulle novità normative, che si succedono con una velocità sconvolgente, che alzano l'asticella di volta in volta sempre più in alto in una direzione deliberatamente liberticida. Vaccini, quarantene, tamponi, decreti, mascherine, distanziamenti, sono termini che si sono insediati prepotentemente, una vera occupazione militare cerebrale, nella mente degli individui, contribuendo ad un impoverimento progettuale nella realizzazione delle loro esistenze. La poesia di Sbarbaro descrive un punto di non ritorno, è un "elogio" all'assenza di vita, alla perdita di quell'umanità che contraddistingue l'agire umano.
Taci, anima stanca di godere
E di soffrire (all'uno e all'altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, è soltanto quello che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
Camillo Sbarbaro (Pianissimo, 1914)
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