Fotografia / Peter Lindbergh: Il fascino della normalità

Il 3 settembre del 2019, all'età di 74 anni, Peter Lindbergh ha riposto per l'ultima volta la sua Nikon nella custodia ed è partito per il lungo viaggio.


Fotografia
Peter Lindbergh

Il suo viaggio terreno era iniziato nel 1944 a Leszno, in Polonia, anche se il nostro era di nazionalità tedesca. I suoi inizi sono legati allo studio della pittura, mentre l'avvicinamento alla fotografia avviene a Düsseldorf dove si trasferisce, lavorando a fianco del fotografo tedesco Hans Lux; due anni dopo, nel 1973 aprirà il suo studio. Il centro della sua attività si trasferirà a Parigi, fulcro della moda mondiale negli anni '70, crocevia di stilisti, modelle e fotografi. Da questo momento in poi, Lindbergh fotograferà le più celebri top models e i suoi lavori compariranno sulle copertine di riviste internazionali quali, Vogue, The New Yorker, Rolling Stone, Vanity Fair, Harper’s Bazaar US, Wall Street Journal Magazine, The Face, Visionaire e Interview.


Queste sono solo brevi note biografiche utili per inquadrare storicamente il personaggio.

I miei riferimenti estetici in fotografia sono essenzialmente tre: Sebastiao Salgado, Gianni Barengo Gardin e Peter Lindbergh, ognuno grande e rivoluzionario a suo modo, ognuno capace con proprie modalità espressive di rivelare l'anima dei luoghi e delle persone, quindi maestri nell'arte suprema della rivelazione, profeti visionari di epifanie umane.

Quello che risulta sorprendente nel lavoro di Lindbergh è la sua capacità di esser riuscito ad imporre un proprio linguaggio fotografico nel mondo laccato e immutabile, semanticamente, dell'alta moda. Con la sua gentilezza, si mette alla prova e sfida, attraverso la propria cultura, l'immagine dominante della donna perfetta truccatissima, vittima della triade simbolica allure, glitter e borsa di coccodrillo.
Penelope Cruz, Foto di P. Lindbergh
Immaginifico essere fuori dal mondo reale, regina eletta del mondo delle copertine di moda, in realtà operaia di lusso di un sistema perfetto espressione di potere economico produttore di vacua immagine.

Le donne, anzi le super models, glitterate, vengono cancellate e ridisegnate con la fotografia in bianco e nero da questo fotografo tedesco cresciuto all'ombra dei paesaggi nebbiosi e privi di colore a causa della polvere di carbone scesa sulle strade della  località mineraria di Duisburg, “la città più brutta della Germania, anzi del mondo”, dove il piccolo Peter era arrivato su un carretto a cavalli.
Da qui forse l'amore per la verità, anche quando è implacabile, e il bianco e nero si mostra da sempre un grande strumento rivelatore dell'anima nella sua essenzialità, nella sua prerogativa di fornire solo le informazioni necessarie, unicamente informazioni che servono per capire. Senza rumore. In silenzio. 

Le immagini di Lindbergh mostrano, in questo modo, delle donne senza quell'aura di mito che sono costrette a sobbarcarsi nella loro irrangiungibilità. Viene a cadere la maschera della messa in scena e con un atto squisitamente rivoluzionario, proveniente
da dentro il sistema, la fotografia di Peter Lindbergh persegue l'obiettivo di liberare le donne dal terrore della perfezione, proclamando che “la vera bellezza è il coraggio di essere se stessi”.

Vengono in mente guardando le sue magnifiche immagini, le inquadrature dei film del Neorealismo italiano, soprattutto Visconti e De Santis, o della Nouvelle Vague francese, innovative e fortemente connotate formalmente e stilisticamente, dove spesso la figura umana è parte integrante del paesaggio, elemento neutro, e il divismo perde la sua ragione di essere a favore dell'elevazione della rappresentazione dell'umanità. Una rivoluzione culturale dell'immagine e non solo.

A conclusione di questo omaggio ad un fotografo che attraverso le sue immagini mi ha "insegnato" il coraggio dello sguardo, voglio citare parte di uno scritto, a mio parere illuminante di Wim Wenders atto a delineare la figura di Peter Lindbergh.

"Fatemi aggiungere un'altra idea: esiste uno splendido film di Francois Truffaut intitolato L'uomo che amava le donne. In questo film si capisce che esiste una rara tribù di uomini - e a loro non può che andare tutta la mia stima - che si comportano in maniera totalmente diversa nei riguardi delle donne rispetto a noialtri. Sono forti ma indifesi, sono teneri ma senza cercare di fare colpo per questo, sono onesti, poichè non hanno altra scelta, sono affettuosi ma per nulla possessivi. In un certo senso, sono una specie di tribù di monaci. E dunque, le donne non sono la loro religione. Si potrebbero definire così: non sono né intimiditi, né intimidiscono."



Riferimenti bibliografici:

Contrasto, Grandi fotografi, Ed. Contrasto, Roma, 2017

Riferimenti sitografici:

Michele Smargiassi, Lindbergh e la costruzione della sincerità, La repubblica, Blog


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